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Revenge porn: è possibile uscirne?
Analisi e consigli per difendersi dalla gogna mediatica

Mercoledì 27 Novembre 2024
autore: Studio Legale Massa
Revenge porn: è possibile uscirne?<br>Analisi e consigli per difendersi dalla gogna mediatica
Uno dei meriti di Internet è sicuramente quello di aver sdoganato una serie di aspetti della vita reale considerati da sempre “tabù”, a favore di una emancipazione individuale e collettiva sempre più ampia.

Libertà di pensiero, libertà di azione e di condivisione sembrano ormai l’unico binario su cui corre il Web e più in generale Ia rete. Difatti, in nome della libertà e dell’anonimato di facciata offerti da Internet, oggi si assiste ad una condivisione, social e non, estrema, dove si arriva praticamente a pubblicare online il tutto di tutti: dalle foto delle persone più care, ai video delle vacanze con gli amici fino alla diffusione di riprese di terzi (anche se mai autorizzate), in un turbine di creatività, ingenuità e vanagloria che porta spesso gli interessati (“content creators”, per professione o anche solo per svago) a deamplificare la consapevolezza delle proprie azioni “digitali”. Come se il profilo social o prima ancora quel dispositivo elettronico su cui si riversa il materiale audio e video di propria o altrui provenienza fossero infallibilmente sicuri e riservati. Come se alla fine tutto quel che si riprende tra le quattro mura di un appartamento o per strada sia sotto il proprio unico e totale controllo, nella disponibilità esclusivamente propria o comunque di persone “fidate” o “autorizzate” della propria cerchia di contatti, fisici e virtuali. Individui, questi ultimi, spesso accostati ad un avatar o un nickname, ma mai visti o anche solo sentiti vocalmente.

Se poi alla condivisione di contenuti si unisce anche la possibilità di far soldi, ecco che il binario della libertà personale inizia ad attraversare praterie sterminate e spesso anche inesplorate (quanto a conseguenze), quali quelle della condivisione di foto e video personali, finanche dal contenuto sessualmente esplicito.


Notoriamente è con l’espressione “revenge porn” che si è soliti indicare la diffusione non autorizzata di contenuti sessualmente espliciti altrui col solo fine “vendicativo” di ledere la persona interessata, fattispecie espressamente prevista dal 2019 anche nel nostro Codice Penale, che all’art. 612-ter c.p. co.1 persegue testualmente “chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate” e lo punisce “con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000”. Naturalmente salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme restando le ulteriori ipotesi aggravanti previste nei commi a seguire.

La premessa normativa è necessaria, sebbene non sia mia intenzione fornire in questa sede un’analisi giuridica della fattispecie in esame o commentarne struttura ed elementi del reato. Basti tuttavia tenere a mente che il concetto di “revenge porn” nella sua formulazione originaria anglosassone è circoscritto al sentimento della rivalsa o vendetta personale (non a caso il termine “revenge”), unitamente all’atto dell’utilizzo e diffusione di materiale pornografico altrui (immagini, video e più in generale rappresentazioni a contenuto sessuale o “erotico spinto” di uno o più individui).

Di converso, la formulazione di partenza abbracciata dal nostro ordinamento -vista sopra- relativa alla prima norma dell’612-ter c.p. è invece svincolata da sentimenti o ragioni emotive specifiche a monte e vede quale elemento soggettivo caratterizzante la figura criminosa il dolo generico. In sostanza la norma persegue la condotta della diffusione (in senso lato), ad opera di chiunque, di materiale sessualmente esplicito “autoprodotto” da uno o più soggetti, senza il consenso dei soggetti ripresi o ritratti, qualunque sia la ragione o il fine che muove la diffusione in questione. Il dolo specifico si rinviene solo al co. 2 sempre dell’art. 612-ter c.p. per chi, essendone venuto in possesso, condivide il materiale altrui, senza consenso, ma per il fine specifico di “recare nocumento” agli interessati. Previsione, quest’ultima, seriamente opinabile a parere di chi scrive.

Altra considerazione riguarda la natura di immagini e video ripresi dalla normativa italiana: quest’ultima richiamerebbe nella perseguibilità solo il materiale a contenuto sessualmente esplicito. Ora, tralasciando l’ipotesi in cui, ove i contenuti fossero di diversa natura, comunque la condotta potrebbe facilmente rientrare in altre fattispecie concorrenti o continenti tra loro, ci si domanda legittimamente quali foto e video rientrino nella definizione prevista dal 612-ter c.p.

In sostanza, quando un contenuto possa considerarsi sessualmente esplicito?

Una importante chiarificazione -utile anche come orientamento per chi è vittima di siffatte diffusioni- viene dalla Cassazione. Già 15 anni fa si annoverava nel “sessualmente esplicito” tutto quel che risultava essere “idoneo ad eccitare le pulsioni erotiche del fruitore” (Cass. pen., Sez. III, 9/12/2009, n. 8285).
Certamente elastica sul fronte concettuale come qualificazione, aveva il merito di agganciarsi già allora ai nuovi scenari di “ingrifamento” offerti da Internet. Per quanto, una qualificazione onnicomprensiva e sicuramente più esauriente, è figlia dei giorni nostri, dove il “sessualmente esplicito”, non è più espressamente accostato alla sola “riproduzione di rapporti sessuali (o di autoerotismo), o ancora di organi propri dell'apparato sessuale-riproduttivo in senso scientifico.” Proprio di recente i giudici della Suprema Corte hanno infatti chiarito che “la sessualità di una persona, vittima del reato, può essere evocata in maniera manifesta anche soltanto attraverso la proposizione di parti del suo corpo "erogene" diverse dagli organi genitali, eppure capaci di richiamare, per il contesto e le condizioni concrete nelle quali vengono ritratte, l'istinto sessuale.” (Cass. pen., Sez. V, 29/03/2023, n. 32602).
E difatti, allora come oggi, vi sono contesti in cui foto di gomiti, di orecchie, di piedi, o persino di parti suturate vengono diffuse illecitamente e ben pagate, con quotazioni tanto più alte quanto più il contesto di provenienza risulti estraneo a finalità erotico-intrattenitive (un classico è quello degli scatti rubati in ambulatori medici o sale operatorie, con pazienti spesso in anestesia totale).

Ad ogni modo, la considerazione di quanti e quali contenuti siano accostabili al “sessualmente esplicito” è un aspetto non da poco, in quanto non sono mancati in passato come non mancano ancora oggi soggetti (soprattutto i più giovani di età) che dopo aver scoperto foto o video illecitamente diffusi che li riprendono, indugiano non poco prima di confessarlo in famiglia o di contattare il sottoscritto avvocato, confondendo erroneamente quanto accaduto ai propri danni con altre tipologie di reato, o peggio, con qualcosa di non perseguibile e punibile legalmente in Italia: ora per il tipo di scatto fotografico o ripresa video, ora per la dinamica contorta e “unica” che li ha visti coinvolti (si pensi alle challenges tra adolescenti o agli incontri tra scambisti), ora per lo strumento software o hardware utilizzato, fin troppo evoluto o precario sul piano dell’acquisizione probatoria e producibilità in giudizio.

Quello che si annovera infatti semplicisticamente nell’ambito del “revenge porn” ricomprende anche tante altre situazioni e dinamiche “tipo” sempre più frequenti nella realtà in cui il “movente della vendetta” è solo occasionale ma dove prevale sempre e comunque il dissenso della vittima alla diffusione di propri contenuti “intimi” o a sfondo sessuale o anche solo all’accostamento lesivo del proprio volto o nome a nudità altrui. Ciò perché la tecnologia porta una continua evoluzione in diversi ambiti umani, e le modalità e le tecniche per “colpire” una persona, purtroppo, corrono in parallelo -più di tutti- con l’ambito tecnologico, e in particolare con quello delle tecnologie informatiche e fotografiche.

Per comprendere meglio questo fenomeno, si pensi che già nella prima metà del 1800, con la nascita della fotografia e la realizzazione delle prime foto in bianco e nero di nudo femminile e di parti intime, si registravano anche i primi casi di diffusione non autorizzata di contenuti sessualmente espliciti. Su tutti basti menzionare l’arresto nel 1888 del fotografo newyorkese Le Grange Brown, nella cui casa la polizia trovò un archivio di oltre 500 foto ritraenti volti femminili anche dell’alta e media borghesia della New York dell’epoca. In quel caso gran parte delle “opere” erano realizzate dal fotografo con la tecnica del fotomontaggio, ritagliando i volti delle malcapitate da fotografie scattate loro in circostanze del tutto “sobrie” e decontestualizzate come eventi di beneficienza e cerimonie pubbliche dell’epoca, incollandoli su foto ritraenti corpi di terze donne nude, spesso di umili origini e condizioni che per pochi dollari concedevano al fotografo scatti integrali o parziali del proprio corpo. I fotomontaggi in questione giravano, dietro lauto corrispettivo, in contesti prevalentemente maschili (saloni di barbieri, taverne e circoli dell’epoca, ad uso e consumo esclusivamente maschile).

Interessante notare che nel caso di Le Grange Brown l’espediente dei fotomontaggi, impiegato per realizzare e commerciare le fotografie, può considerarsi l’antenato dell’odierna e crescente “deepfake”, tecnica che con l’ausilio di software di intelligenza artificiale, permette oggi la creazione di foto e video porno fittizi usando volti di attrici ma anche di donne comuni, estratti in origine da contesti totalmente “sobri” e privi di malizia, facendoli elaborare e combinare dai software in questione con foto e filmati porno reali, ritraenti anonimi attori. Il tutto per poi spacciare il materiale in questione come autentico e ritraente per davvero la celebrità o la semplice donna bersagliata, ma sottacendo sullo scambio digitale dei volti (“face swap”).


Tornando ai giorni nostri, nell’interesse delle tante vittime di “revenge porn”, ritengo piuttosto utile e soprattutto di concreto interesse fare il punto sulla casistica più nota e l’approccio da avere per uscire -totalmente o con meno “danni collaterali” possibili- dalla gogna mediatica in cui ci si ritrova improvvisamente, ora per volontà di un partner infelice e vendicativo, ora per puro diletto di un insospettabile amico o conoscente, ora per iniziativa di perfetti sconosciuti.

Quando mi vengono sottoposte problematiche relative alla diffusione non autorizzata di video, foto o anche solo chat con contenuti “sessualmente espliciti” o comunque moralmente compromettenti -che ciò avvenga in rete, con l’ausilio delle nuove tecnologie o anche solo offline- la preoccupazione dei clienti ruota purtroppo e prevedibilmente intorno ai medesimi “angoscianti” interrogativi:

- “In quali siti sono finte le mie foto e i miei video? E per quanto tempo vi resteranno?”

- “Le indagini permetteranno di risalire a chi li ha diffusi in rete?”

- “La mia famiglia può scoprire questi video? E i miei colleghi di lavoro?”

- “Sembra un incubo, è possibile fermare tutto questo?

Le domande tra l’altro sono comuni a tutti quei casi rientranti o anche semplicemente accostati -come visto spesso per errore di definizione- al “revenge porn”.

Sebbene siano molteplici le situazioni tipo in cui può maturare la creazione e diffusione di materiale in questione, soffermiamoci su quella più nota, essendo tra l’altro anche l’ipotesi che può intrecciarsi con dinamiche e combinazioni di eventi estremamente diversificati.


FOTO O RIPRESE DIFFUSE SENZA ALCUNA AUTORIZZAZIONE.
E’ purtroppo un classico accostato al “revenge porn”, anche se può verificarsi al di fuori di una coppia, per iniziativa non necessariamente di un partner, talvolta senza che la persona o le persone rappresentate siano consapevoli di essere fotografate o riprese (o magari lo erano in un primo momento e solo a certe condizioni) e, dal lato di chi provvede alla diffusione del materiale, agendo talvolta per pura frivolezza e svago, senza il reale intento di distruggere serenità e reputazione di uno specifico soggetto o di lucraci sopra.

Si pensi alla coppia che viene ripresa di nascosto, nell’intimità, dal personale di un albergo, dal proprietario di un locale o di un fondo, ma si pensi anche al caso in cui siano gli stessi protagonisti di foto e video a consegnare, senza volerlo, a terzi insospettabili, lo stesso materiale, magari nell’ambito di richieste del tutto lecite. Emblematico è il caso del supporto di memorizzazione (scheda di memoria o pennetta USB) usato in precedenza da una coppia per foto e riprese ad uso e consumo personale e poi consegnato dopo tempo ad un fotografo per salvarci altre foto o video. Frequente è anche il caso del computer e dello smartphone guasti e non più funzionanti, consegnati ad un negoziante o ad un tecnico per la riparazione, senza neanche possibilità per il cliente di potervi prima accedere, per rimuovere eventuali contenuti a sfondo sessuale o comunque compromettenti.

Escludendo l’ipotesi in cui i files siano ancora materialmente presenti e liberamente accessibili, purtroppo anche la semplice formattazione rappresenta un’operazione insufficiente a impedire il recupero e l’accesso ai files in questione: molti sistemi infatti quando formattano una memoria si limitano al “quick format” che altro non è che un reset di alcuni dati o settori di indicizzazione dal supporto di memorizzazione (in pratica, eliminati questi dati, il sistema considera apparentemente come pulita la periferica su cui scrivere). Ma di fatto il contenuto e i restanti settori non vengono sovrascritti o cancellati, e risultano ancora “recuperabili” anche se il supporto viene rinominato, appare vuoto e si aggiungono altri contenuti. L’operazione di “recupero” è alla portata quasi di chiunque, in quanto un malintenzionato o anche un semplice curioso, senza grandi doti informatiche, sono in grado di perfezionarla attraverso software liberamente scaricabili in rete.

Ecco, in situazioni del genere, supponendo che l’amico o il parente ci abbiano appena informati della fuga o della diffusione non autorizzata di contenuti anche solo genericamente “intimi”, come è bene muoversi?

Prima di sporgere querela o subito dopo averlo fatto, è bene armarsi di una megadose di calma e del supporto di una persona fidata -magari con conoscenze informatiche- e iniziare a fare il punto reale della situazione.

In primis è fondamentale capire in quale contesto e canali stia avvenendo la diffusione. Se poi il materiale è già online, il sito di pubblicazione, la location e i soggetti ritrattati nelle foto o nei video permettono spesso già di comprendere il “know-how” e verosimilmente età e identità di genere di chi ha operato.

In realtà il contesto di pubblicazione e le didascalie che accompagnano video e foto permettono spesso anche di profilare le reali intenzioni di chi ha diffuso i contenuti incriminati. Allo stesso tempo il “range” di diffusione permette anche di capire quanto è contenibile la diffusione e ripristinabile la situazione iniziale.

Paradossalmente se i video o le foto iniziano a girare in circuiti particolarmente gettonati e visitati, l’intervento di rimozione sarà verosimilmente più celere, ma il rischio di vederli ricomparire su siti minori o parassiti dei primi sarà più alto. Al contrario, una pubblicazione in contesti di nicchia (forum o canali di messaggistica) circoscriverà almeno in partenza apparentemente la diffusione, ma la renderà anche più subdola, in forza dell’anonimato o dello spazio apparentemente “anonimo” di manovra che viene concesso o si auto-riconoscono erroneamente iscritti e frequentatori di detti contesti.

Un aspetto di indubbia importanza è anche quello legato alla “superficialità” o anche alla “ingenuità” di chi pubblica di sua iniziativa propri contenuti, e che accomuna l’utenza più giovane ma anche -a prescindere dal fattore età- chi ha scarse conoscenze di Internet e di informatica.

Si pensi a tutti quei siti a pagamento che permettono a persone comuni, in cambio di dirette e video a contenuto erotico, dei compensi inimmaginabili o comunque incomparabili con quelli offerti da altri lavori. In questo caso è facile che la studentessa, la casalinga o il disoccupato (il discorso vale indistintamente sia per le donne che per gli uomini) decidano di “arrotondare” se non di sbarcare il lunario con delle riprese “hot”, a numero chiuso o rivolte a uno specifico target. E così per velocizzarne la realizzazione, scelgano come location la prima disponibile (ad esempio la propria camera da letto, il box di casa, la stanza di hotel o perfino la casa disabitata del nonno defunto), premurandosi di coprire per bene il proprio volto durante riprese e scatti, ma senza avere poi l’accortezza di coprire quadri e quadretti che fanno da sfondo all’intera performance, esponendo alla pubblica visione praticamente di tutto: dalle foto di famiglia, ai quadretti di santi, passando per tesi di laurea, trofei sportivi o altri oggetti riconoscibilissimi che, se opportunamente ingranditi e messi a fuoco, di certo forniscono lo spunto per una facile tracciabilità di partenza e conseguente gogna mirata in rete.

Purtroppo è frequente che tra il pubblico dei paganti vi sia chi si scarica il video o “catturi” la diretta o singoli frames della stessa, tramite specifici software e inizi a far girare tutto il materiale o a riproporlo su altri canali, dietro l’erronea convinzione che il soggetto ripreso abbia accettato il rischio di finire in mondovisione o quasi...

Proprio quest’ultima circostanza spinge molte vittime di “revenge porn” o di dinamiche comunque ad esso astrattamente riconducibili, a sentirsi soli, ad autocolpevolizzarsi fino a sentirsi spesso e in qualche modo moralmente “sporchi”, quando in realtà le uniche colpe sono solo quelle di essersi fidati della persona o del contesto di persone sbagliato. E fa sorridere spesso leggere anche le argomentazioni difensive degli autori di tutte le condotte incriminate e dei colleghi che li difendono, che da carnefici li trasformano in vittime, nel tentativo di ingenerare insicurezza e autocolpevolezza nella parte lesa, così da tentare di distorcere i fatti anche agli occhi del magistrato di turno.

Concludendo, alla domanda se sia possibile uscire dal pozzo senza fondo, dalla gogna perpetua, in cui qualcuno un bel giorno ha deciso di buttarci la vita di qualcun altro, diffondendone video o foto personali, la risposta è, moderatamente, sì.

Moderatamente in quanto ogni caso è a sé e ogni caso presenta uno spettro di diffusione diverso dall’altro, ogni caso vede anche moventi diversi e spesso un circuito di soggetti coinvolti non facilmente individuabile.

La pazienza, la calma e un autocontenimento emotivo sono comunque la chiave di partenza per uscirne. Un approccio al contrario narcisista, frettoloso o autodenunciante (il classico “lo dico io a tutti, prima che mi arrivi all’orecchio”) sono quanto di più deleterio si possa avere in partenza, non solo sul piano legale ma soprattutto contenitivo dell’evento.

Un basso profilo permette spesso, infatti, di poter già tessere la ragnatela della diffusione e chiudere il cerchio intorno anche ai possibili autori o comunque al dispositivo da cui è partita la diffusione.

Avv. Rocco Gianluca Massa
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